Dietro casa
Mia sapeva che dalla porta sul retro non poteva uscire.
Poteva giocare in cortile, andare dalla sua amica che viveva nella casa a fianco e insieme potevano anche giocare nella strada davanti. Ma sul retro non era permesso andare. In otto anni niente aveva mai destato la sua curiosità, sapeva di non potere e non lo faceva. Ciò che diceva la mamma era legge, la sua era la parola che contava, soprattutto da quando il papà era dovuto andare via e non sapeva quando sarebbe tornato. Era passato molto tempo da quel giorno, Mia se lo ricordava appena: rumori forti, estranei in casa, coperchi di bidoni che venivano battuti forte, come una sirena d’allarme.
Un pomeriggio d’autunno però, mentre si annoiava in cortile, sentì una voce lontana chiamare.
C’è qualcuno?
In principio pensò di esserselo immaginato, ma la voce tornò presto più nitida.
Qualcuno mi può aiutare?
Sembrava provenire dal retro dove sapeva di non poter andare. Si issò in piedi e rimase ferma in mezzo al cortile, fissando quella porta proibita a cui si avvicinò piano, guardandosi intorno per essere sicura di essere sola. Quando fu così vicina da sentire l’odore del legno impregnato di pioggia, la voce chiamò di nuovoe un brivido la scosse, dandole al contempo la forza per appoggiare la mano e spingere la porta verso l’esterno.
Rimase senza fiato.
Sapeva che era lì dietro. Ne aveva sentito parlare e c’era un motivo se la mamma le vietava di avvicinarsi ma, oltre ad essere spaventoso e così alto, era anche colorato, pieno di scritte e disegni che dicevano molte cose, poche sulla guerra, molte sull’amore.
Ma era proibito.
Ed era peccato disobbedire alla propria madre, lo sapeva bene, la catechista glielo ripeteva ogni domenica. Solo che la voce adesso si era fatta più insistente.
Aiuto, per piacere.
Calma, Mia! Si disse sottovoce. Cosa può succederti? Eppure lo sapeva. Sapeva che era pericoloso, e non era solo la mamma a dirlo che quel muro faceva paura anche se, in fondo, era solo cemento e il filo spinato in cima sembrava quello del cortile di casa sua e la voce che la chiamava era quella di una bambina come lei.
Ti prego aiutami!
Chi sei?
Vieni qui e te lo dico.
Mia guardò il muro, non aveva spiragli, da dove veniva quella voce?
Sono dal cancello.
Allora Mia attraversò la strada di corsa, camminò rasente il muro cercando di non osservare troppo quelle scritte colorate che attiravano la sua attenzione distraendola. Arrivò al grande cancello senza neanche accorgersene e quando vide un occhio tra il cemento del muro e l’acciaio dei piantoni si spaventò, si fermò di colpo e cadde all’indietro.
Non sono così brutta. La voce si era addolcita, ora sussurrava, come se si rendesse conto anche lei del pericolo.
Scusa disse piano Mia.
Ho perso una cosa.
Che cosa?
L’orologio di mio papà. È caduto dalla tua parte. Non ci arrivo.
L’occhio scomparve dalla fessura e un braccio minuto invase la parte di Mia, dimostrandole che riusciva a malapena a toccare l’asfalto e non poteva certo arrivare all’orologio, che ora anche lei vedeva, indicato da quella mano sporca che aveva tentato più volte di afferrare quell’oggetto.
Tuo padre si arrabbia se non glielo riporti?
Mio padre non c’è. Non c’è più.
La paura di essere scoperta dalla mamma scomparve di colpo, si mise in ginocchio in modo repentino, afferrò l’orologio e lo appoggiò sulla mano che attendeva impaziente e che lo strinse subito così forte da vedere il colore della pelle cambiare in corrispondenza delle nocche.
Devo andare. Ciao.
Mia rimase delusa, ferma a fissare lo spiraglio sull’altra metà della città, aveva corso un pericolo per che cosa?
Poi, però, l’occhio riapparve all’improvviso.
Scusa, le disse. Ma se mi scoprono sono nei guai.
Capisco.
Grazie sussurrò la voce. Mi hai salvata.
Mia sorrise. Ne era valsa la pena.